28.11.09

The Strangers VS Martyrs

“Non è il cosa ma il come.” (Stanley Kubrick)

The Strangers di Bryan Bertino - (2008) USA

Martyrs di Pascal Laugier - (2008) Fra\Can

The Strangers e Martyrs sono due film agli antipodi che si inseriscono in un ampio dibattito su cosa sia più giusto fare nei confronti della violenza. Stiamo parlando di due film d’intrattenimento (anche se il secondo ha velleità artistiche che non raggiungono esattamente la sufficienza piena) che fanno della tensione il loro punto di forza. È quel genere di film che vuole incollare lo spettatore alla poltrona e terrorizzarlo sempre di più scena dopo scena, instaurando così la sfida più grande per il regista e cioè cosa inventare per aumentare il coinvolgimento emotivo dello spettatore senza ripetersi. Ma le scelte di stile sono profondamente diverse: The Strangers lavora per sottrazione, mostrando molto poco e lasciando che a farla da padrona sia la paura di ciò che non si vede; Martyrs mette morbosamente in primo piano sangue ed efferatezza e quando raggiunge il culmine sorprende lo spettatore facendolo sprofondare in un incubo peggiore e che si pensava di aver evitato.

The Strangers è pieno di topos tipici del film dell’orrore. C’è la casa in piena campagna nella quale si trovano solo due bellocci, lui e lei, fidanzati in piena crisi. La prima grande mossa del regista è costruire un passato a questi due protagonisti attraverso pochi dettagli ma tutti fondamentali; dopo un po’ pensiamo di conoscerli da una vita e di poterli inquadrare in uno schema. Tutto questo ci fa empatizzare con loro già al primo segno di pericolo: una ragazzina bussa alla porta in piena notte chiedendo di un’amica per poi andarsene di nuovo nell’oscurità. Da quel momento i due si troveranno letteralmente braccati nella loro proprietà da tre individui mascherati che faranno di tutto per fargli venire un infarto. L’intero impianto narrativo di The Strangers, infatti, si basa proprio su questo: i tre aguzzini non sembrano voler mai concludere il loro atto; spaventano, si avvicinano ma poi si allontanano, sembrano sparire per poi tornare da una finestra. Un autentico gioco al massacro che sembrerebbe non proporre nessuna seria riflessione se non fosse che il film si chiama “gli stranieri”, parola carica di connotazioni horror ma anche razziste. Infatti il perverso giochino avviato porterà all’uccisione di un amico della coppia in pericolo per loro stessa mano: terrorizzati e con l’unica arma a disposizione che hanno, finiranno con lo sparare a chi invece era arrivato in loro aiuto. Non hanno saputo riconoscere lo straniero e per questo lo hanno rifiutato, condannandosi al loro destino. La metafora è fin troppo esibita ma il merito del film è quello di non prendersi così sul serio e pur puntando in alto, non trascura l’intrattenimento e ci riporta immediatamente alla trappola in cui i due sono costretti. Qui subentra il voyeurismo dello spettatore: chi se ne frega del tizio morto ucciso, andiamo avanti con la storia e vediamo che succede. Ecco che si palesa una delle grandi contraddizioni del cinema contemporaneo: siamo spaventati, siamo in tensione eppure continuiamo a guardare. Perché vogliamo sapere come va a finire. Ne siamo davvero sicuri? Ci interessa se i due sopravvivranno o vogliamo assolutamente sapere perché i tre aguzzini fanno quello che fanno? A questo punto ad Haneke staranno fischiando le orecchie, se vero che i suoi due psicotici vestiti di bianco si erano già cimentati in tutto ciò molti anni prima (e non scomodiamo i drughi di Kubrick per favore, perché a voler ben vedere forse loro una motivazione di fondo ce l’avevano). E se difatti uno di quei due psicotici non si sarebbe voltato ammiccante verso la macchina da presa, Funny Games sarebbe stato né più né meno che The Strangers. Il colpo di genio del regista verte proprio su questo ragionamento: nessuna spiegazione né la minima volontà di fornire un movente. Solo un bagno di sangue e la promessa di un sequel (il botteghino ha sentenziato e vorrei ben vedere).

Il pugno allo stomaco chiamato Martyrs marcia su ben altri binari e non uso questa parola a caso perché il film può essere facilmente diviso in due parti all’apparenza parallele. Per tutto il primo tempo assistiamo ad una moderna vendetta asiatica sia dal punto di vista tematico (a proposito, quando cominceremo a riflettere sul fatto che il cinema asiatico non parla d’altro che di vendetta?) che visivo, visto che il film sembra rifarsi a tutta quella recente cinematografia horror che per un certo periodo sembrava aver preso il sopravvento. Nel secondo tempo viene abbandonato il primo binario per saltare al secondo, dove la violenza non è più la sopravvivenza dei protagonisti ma è la protagonista stessa. Forse la brillante trovata dell’autore sta proprio in questo meschino “scherzetto” nei confronti del pubblico: per tutta la prima parte ci vengono solo fatte intuire le atrocità subite dalle vittime di alcuni misteriosi aguzzini, intuire abbastanza da farci inconsciamente ringraziare il regista per non avercele esplicitamente mostrate. Ed ecco che arriva la cattiveria: pensavamo non ci sarebbero state mostrate e invece diventano parte integrante della seconda parte, anche se dire parte integrante è un eufemismo visto che diventano la storia stessa e per mezz’ora non guarderemo altro. Se mi è concessa la nota personale (è un blog, e che diamine!) a quel punto del film mi è successo qualcosa a cui non ero preparato: ho desiderato interrompere la visione. Era davvero troppo: non era violenza, era tortura fisica e psicologica così sistematicamente inflitta da dover per forza portare a ricordare che queste cose sono pure successe (gli esempi si sprecano). E rieccoci all’apice toccato anche in The Strangers: andare avanti per conoscere il motivo di tutto ciò? No, perché il motivo ci è stato spiegato giusto due minuti prima che la tortura iniziasse. Allora davvero questa volta si rimane a guardare per conoscere il destino dell’unica protagonista rimasta, pur sapendo che per lei non c’è speranza fino all’ultima atroce tortura che dovrà subire. L’ultimo grande segreto che la storia vuol proporre rimarrà tale perché l’unica ad esserne a conoscenza deciderà che i comuni mortali devono rimanere nel dubbio, di fatto trovando una scappatoia alla trama ma anche tracciando il limite di questo cinema e i suoi spettatori: abbiamo sopportato fino alla fine per non ottenere nulla, siamo doppiamente vittime. Martyrs, come accennato prima, tenta di volare alto ma la pretesa mistico-religiosa tentata da Laugier non solo fallisce ma mi irrita anche a livello personale (soffrire dannatamente per ottenere la rivelazione mistica è una morale filosofica e religiosa molto pericolosa).

E rieccoci qui al dilemma. Mostrare tutto in primo piano o lasciare alla fantasia dello spettatore il compito di spaventare? E c’è davvero una differenza fra le due cose o stiamo solo fingendo che ci sia? Piuttosto sarebbe doveroso chiedersi quando è giusto mostrare e quando lo è celare. Martyrs mostra perfino i dettagli, disturbando a tal punto lo spettatore da fargli rimpiangere Hostel, mentre The Strangers mostra poco e nulla e soprattutto non fornisce un motivo per aver sopportato quello che abbiamo visto. Allora la grande questione sollevata da Haneke rimane aperta. Così come la sua ironica soluzione: il telecomando può risolvere tutto. Non ti piace quello che vedi? Spegni lo schermo. Ma sei proprio sicuro di poterci riuscire? Magari aspetti altri cinque minuti sperando nel lieto fine e di cinque minuti in cinque minuti sei già ai titoli di coda. Senza speranza.

15.11.09

Religiolus - Vedere per credere

Religulous di Larry Charles
(2008) USA

Prima di esprimere un giudizio critico sull'opera, mi preme mettere in chiaro una cosa e lo posso fare perché l'argomento della religione è da me particolarmente conosciuto e modestamente indagato: tutto ciò che Bill Maher dice in questo film è vero. Che la religione sia un prodotto dell'uomo e non una manifestazione di Dio è stato ampiamente documentato, che la storia di Gesù sia un "remake" di altre divinità a lui precedenti è stato dimostrato. Per questo considero questo film nobile negli intenti ma fallimentare nei risultati. Fallimentare quanto meno nella parte critica perché almeno il documentario fa molto ridere e soddisfa perciò uno dei due obiettivi (ridicolizzare la religione) mentre l'altro (la riscossa dell'umanesimo laicista) viene trascurato o non opportunamente affrontato. Questo perché Charles e Maher scelgono la via del documentario alla Michael Moore: sostenere un punto di vista e screditare chiunque vi si opponga. Commettono però due errori: non c'è nessun punto di vista da difendere, quelli che mettono in campo Charles e Maher sono realtà, sono fatti documentati, non sono cose sulle quali si può esprimere un punto di vista perché sennò si finisce con il dare credito al credo dogmatico dell'avversario; il secondo errore è la manipolazione delle immagini e degli intervistati: è evidente che i due autori hanno scelto prede troppo facili da attaccare e così facendo portano a credere che in realtà istituzioni più radicate come la Chiesa del Papa siano in realtà più miti e razionali, idea ingenua e pericolosa, e fanno ciò montando le interviste in modo che gli interlocutori appaiano in difficoltà (cosa che può pure essere vera ma che non viene restituita allo spettatore). Probabilmente la loro intenzione era un'altra: mostrare che fra le grandi religioni (cattoilicesimo, Islam...) e quelle piccole (il tizio che venera le droghe leggere, il grassoccio che dice di essere la seconda venuta di Gesù) non c'è nessuna differenza, partono entrambe dagli stessi assunti ma diventano più o meno ridicole a seconda dei numeri dei seguaci che riescono ad accumulare. Perché il Papa ha più credito del grassoccio che incarna Gesù? Perché ha più fedeli? Basta davvero questo a rendere reale le idee assurde e irrazionali (ed antiscientifiche, non dimentichiamolo) sostenute dal Vaticano? Tutto ciò è un pensiero legittimo ma il film non riesce a farlo emergere chiaramente, lascia questo tema sottotono, non lo porta in superficie e quindi fallisce.
Religulous, insomma, è un documentario satirico e dalle opinioni molto forti, comprensibilmente osteggiato dalle chiese di mezzo mondo. E' sicuramente divertente ma non aspettatevi la rivoluzione culturale che meritiamo. Per quella vi toccherà studiare ancora un poco ma se lo vorrete fare, credetemi, ne varrà la pena.

12.11.09

Baarìa

Baarìa di Giuseppe Tornatore
(2009) Ita\Fra

Il buon Tornatore si conferma regista di grande manierismo. Ciò che stupisce però è come riesca, a fronte della sua rigidità formale, a creare un'emozione narrativa molto intensa anche quando di fatto non c'è neanche una vera trama da raccontare. Perché in Baarìa la storia di una famiglia attraverso svariate generazioni è soltanto un pretesto per attraversare molti lustri di storia filtrati dal microcosmo della provincia palermitana. Sul finire, infatti, la vita dei protagonisti perde l'interesse da parte dello spettatore (semmai l'ha ottenuto) che piuttosto si concentra sull'enigma favolistico del finale, quando due mondi temporalmente lontani si incontrano per sancire la fine di un'era. Ed è qui, probabilmente, che Tornatore mostra la debolezza del suo impianto: liquidare decenni di storia nel fallimento di una città assediata dal caos e dal traffico può risultare puerile e perfino fastidioso a chi da anni cerca di dare un senso ed un ordine a questo mostro chiamato "progresso". Ciò nonostante, come dicevo sopra, il film riesce ad emozionare ma lo fa con due grandi intuizioni narrative: i micro-racconti che si snodano sullo sfondo della piccola cittadina, piccoli e grandi affreschi di individui tipicizzati e tipicizzanti; la brillante idea di affidare il ruolo di (finti) protagonisti a degli sconosciuti e riunire un parco attori faraonico per ridurlo a comparse e comprimari (e con questo Tornatore svela l'inganno: i veri protagonisti della storia sono le figure di passaggio, i ricordi e le impressioni del regista e per questo finiscono con il prevalere su tutto il resto). L'esperimento è riuscitissimo: da una parte regala grandissima attenzione ai dettagli, dall'altra dimostra come in Italia troppo spesso gli attori sono così "eccessivi" da risultare affascinanti in brevi apparizioni ma pedanti in ruoli da protagonista.
Ebbene, se da una parte abbiamo il solito autore che mette in gioco il suo album di memorie per omaggiare il cinema e le radici senza neanche tanta originalità (riconoscendogli comunque una notevole maestria nella direzione dell'insieme), dall'altra abbiamo l'affresco del cinema nostrano contemporaneo che proprio in un kolossal mette in scena i suoi limiti. Trasformandoli provocatoriamente in forza.