28.3.10

Mine vaganti


Mine vaganti di Ferzan Ozpetek

(2010) ITA

Dopo il bellissimo Saturno contro e il meno fortunato Un giorno perfetto, è evidente che Ferzan Ozpetek ha voluto una ventata di commedia e leggerezza per il suo nuovo film, senza però rinunciare a quei momenti a suo modo poetici e profondi che sono un po' la sua cifra stilistica. Questo Mine vaganti rappresenta lo slancio del regista verso un film più spensierato e meno impegnativo del solito che però gioca d'equilibrio tra la commedia ed il dramma, comprimendo quest'ultima parte in una serie di momenti meno tesi del solito ma piuttosto lasciati scoppiare in farsa. Perfino la componente omosessuale, tanto cara all'autore, viene questa volta relegata a semplice cornice; il motivo scatenante del tutto è sì il dichiararsi gay dei protagonisti ma ben presto questo dettaglio va relegandosi sullo sfondo lasciando che ad occupare la scena siano le dinamiche familiari, il rapporto che si instaura fra parenti e soprattutto gli obblighi ed i doveri che ad essi ci legano e che troppo spesso ci soffocano. Il mondo gay viene solo guardato dall'esterno, come fosse una scheggia impazzita che all'improvviso compare in un universo altro non abituato a certe cose e per questo motivo genera macchiette. 
Anche questa volta Ozpetek sceglie la sottrazione ma se in Saturno contro erano i dialoghi ad essere volutamente superflui, questa volta è la regia a mantenersi su toni più contenuti lasciando che a narrare siano le scene, forse le più parlate nel cinema di Ozpetek. E per il resto niente di nuovo: come sempre, le storie di Ozpetek non sembrano risolversi; vi è sì una sorta di risoluzione per i protagonisti, molto più positiva del solito, ma le porte rimangono aperte perché l'autore si innamora a tal punto dei suoi personaggi da non lasciarli chiusi nei titoli di coda, li lascia liberi di continuare a vivere.
Sarà il mio debole per i film corali, ma pur non rappresentando nulla di nuovo nel cinema di Ozpetek, questo Mine vaganti mi è piaciuto perché fa sorridere con il cuore anche se il tema di fondo (oltre le scelte che ci rendono ciò che siamo) è l'amore, una volta tanto non sofferto e sacrificato ma salvifico, liberatorio ed appagante. Non la solita menata esistenzialista all'italiana. E poi Ozpetek dirige gli attori in maniera egregia e ha mantenuto la promessa: a quella critica di massa che qualche mese fa scrisse di non poterne più delle sue tavolate, ha risposto riempiendo il film di scene chiave girate fra una portata e l'altra. 

9.3.10

Meglio tardi che mai

A chi ha un minimo di buon senso e di cervello è sempre sembrato che la pirateria non è un cancro da estirpare ma una forma di diffusione multimediale da analizzare e che dovrebbe far riflettere. Se centinaia di migliaia di persone preferiscono scaricare dalla rete l'ultimo episodio di Lost in lingua originale e sottotitolato in italiano da solerti volontari che non ci guadagnano nulla se non la gloria, piuttosto che guardarlo comodamente doppiato ad una sola settimana di distanza dalla messa in onda americana, ecco allora che il problema si fa serio. Quest'ultima idea appariva la risposta migliore al calo di ascolti che le reti tematiche (in questo caso FOX Italia che trasmette su piattaforma Sky) subiscono a causa della prima possibilità di fruizione. Una valida alternativa l'aveva proposta Telecom, offrendo l'ultimo episodio con sole 24 ore di differita in lingua originale e sottotitolato al costo di € 1.99; un'idea innovativa per il mercato italiano e di cui, per ora, non si conoscono i risultati commerciali. FOX Italia, invece, deve aver accusato un calo di ascolti non da poco visto che ha tirato fuori un'altra idea che si configura come storica nel panorama televisivo italiano: continuerà a proporre Lost doppiato ad una settimana di distanza, ma dal 17 marzo tenta il colpo grosso: trasmissione dell'ultimo episodio della serie a sole 24 ore dall'America, in lingua originale e con i sottotitoli in italiano. Idea analoga a quella di Telecom ma stavolta lo spettatore FOX non dovrà pagare per vedere quell'episodio, essendo il canale già compreso nel normale abbonamento sottoscritto. Un'idea che sicuramente andava lanciata prima (vista la portata innovativa) e non a stagione in corso ma evidentemente i dirigenti speravano che una settimana di differita fosse sufficiente a far desistere dal download in rete; si devono essere accorti, invece, che la sete di Lost è tale che lo spettatore non è disposto a rimanere indietro, soprattutto non è disposto ad essere figlio di un dio minore nella comunità di fans che in rete discutono e si confrontano in base alla messa in onda americana, prima cioè di tutti gli altri. 
Tutto questo ci insegna che finalmente c'è qualcuno che preferisce agire piuttosto che lagnarsi di Internet e delle sue armi che danneggerebbero il mercato televisivo e cinematografico; c'è qualcuno che finalmente prende in considerazione anche quella fetta di pubblico che scarica non per il brivido di compiere qualcosa di apparentemente illegale (teoria, questa del brivido, tutta da dimostrare) ma perché non è disposta ad aspettare oltre. Sarà interessante, se saranno resi pubblici, leggere i dati di ascolto della messa in onda di Lost in lingua originale su FOX Italia e confrontarli con la regolare programmazione sul medesimo canale: c'è da scommetterci che i risultati saranno sorprendenti. 
In tutta questa vicenda a perderci è la tv generalista che si ritroverà a mandare in onda un prodotto già scaricato dalla rete, già andato in onda in due modalità diverse sulle reti tematiche, un prodotto insomma visto e stravisto (ecco il motivo dei bassi ascolti di Lost su Raidue, a parte la programmazione infelice proposta dalla rete pubblica). Una colpa di cui la televisione dovrebbe assumersi la responsabilità, visto che ogni prodotto andrebbe proposto per il pubblico a cui mira, con tutto ciò che ne consegue. Invece viene normalmente buttato nel calderone del commercio, senza nessuna strategia connessa. E allora ben gli sta.

P.S. La stessa strategia verrà proposta da FOX Italia anche per la serie Flashforward. Ho preferito soffermarmi solo su Lost perché è quest'ultima che ha smosso le acque; anzi, sarebbe più giusto dire che è il pubblico di Lost ad aver finalmente costretto i pezzi grossi a cambiare l'ordine delle cose.

7.3.10

Oscar 2010

Mancano poche ore agli Oscar 2010. In attesa del verdetto e delle conseguenti riflessioni, ecco qui sotto i dieci titoli che concorrono come miglior film. Quelli cliccabili sono quelli che ho visto, potete leggere quello che ne ho scritto. 
Suggerite i vostri pronostici o fate i vostri commenti.

6.3.10

District 9

District 9 di Neill Blomkamp
(2009) Usa\New Zeland

Eccolo qua il vero outsider degli Oscar 2010, in una certa maniera molto più anomalo di Bastardi senza gloria. E' District 9 la vera nemesi di Avatar, nel senso che entrambi narrano in un certo modo la stessa cosa ma con risultati decisamente diversi. Mentre Avatar è banalotto e scontato ma si salva per essere un progetto d'intrattenimento che sfrutta un nuovo modo di fare cinema, District 9 ha una messa in scena più classica ma presupposti molto più virtuosi ed interessanti. L'idea originalissima è di narrare i problemi dell'integrazione, dell'immigrazione e della diversità fra razze in un luogo che di questi problemi ne ha avuti parecchi (Sudafrica) e da un punto di vista decisamente anomalo, quello di una gigantesca popolazione aliena che si ritrova bloccata a Johannesburg perché non riesce più a mettere in moto l'astronave per tornare a casa e per questo motivo deve integrarsi con gli abitanti del luogo. Il problema è che gli uomini finiranno per ghettizzarli in un "district 9" proprio come i neri lo erano in un "district 6" durante l'apartheid. Questo splendido corto circuito tematico si fonde alla storia del protagonista, un uomo sgradevole e razzista che si ritrova invischiato in qualcosa di più grande di lui e che ben presto passerà dall'altra parte, quella dei discriminati, dovendo rivedere per sempre le sue priorità ma non per questo migliorandosi come persona. Viene dunque soddisfatta la sete di cinema d'azione per il pubblico meno esigente ma è altrettanto saziata la metafora politica della vicenda, che però va lentamente scemando verso la fine lasciando lo spettatore solo con le sue considerazioni. 
Il regista sceglie di raccontare tutto ciò con uno stile documentaristico che forse non è esattamente la scelta più felice anche se comprensibile: il tutto dà all'opera un'aurea di autenticità, non tanto ai fatti narrati quanto alle dinamiche che si scatenano in determinate situazioni. Ma ad un certo punto si avverte confusione sulla realtà oggettiva proposta dal regista e quella ipoteticamente documentata dalle videocamere, tant'è che quando nel film arriva il momento di far prevalere la prima sulla seconda ci si sente ulteriormente forzati ad accettare un "patto" che ha già richiesto un bello sforzo da parte dello spettatore. Rimane comunque un film interessantissimo e per nulla banale, con degli effetti speciali (curati dalla Weta di Jackson) capaci di proporre un'interazione tra uomini e creature digitali che ha un qualcosa di simpaticamente vintage. 

The Hurt Locker


The Hurt Locker di Kathryn Bigelow
(2008) USA

Il problema di The Hurt Locker è politico. Si può realizzare un film di guerra senza dargli un contesto ben preciso? In The Hurt Locker vediamo le truppe americane in azione, in un territorio ostile e popolato da facce arabe che potrebbero nascondere continue minacce. Il film non si pone minimamente il problema di contestualizzare tutto ciò: perché gli americani sono lì, chi ce li ha mandati, perché la popolazione del luogo sembra così ferocemente ostile; tutto ciò è lasciato alla cultura dello spettatore e se lo sa, bene; se non lo sa, pazienza. Si potrebbe obiettare che il film non vuole assumere nessuna posizione politica ma soltanto raccontare la storia di un uomo così malato di adrenalina da sentirsi vivo solo a contatto con la guerra e con le bombe. E a parte che questo è proprio l'aspetto più debole della storia, è ben più grave che per un pretesto del genere si tirino in balli i morti militari e civili. Il punto di vista più controverso del film è che, quasi quasi, sembra essere una pellicola militarista, ponendosi così controcorrente nel cinema di genere dove i grandi film sono sempre stati antimilitaristi. Tralasciando questa perniciosa interpretazione facilmente attaccabile, il punto è un altro: i grandi film di guerra del passato ti raccontavano come una cosa orribile come un conflitto bellico potesse cambiare e sfregiare per sempre gli individui coinvolti negli scontri; c'era, cioè, un'idea di racconto che narrava emotivamente una verità ampiamente documentata. In The Hurt Locker, invece, i personaggi sono come sono fin dalla prima scena: non crescono psicologicamente e non sembrano soffrire la guerra, vivono solo in attesa del congedo e nella speranza di poter tornare a casa con ancora tutti gli arti attaccati al corpo. Per questo motivo il film soffre di una certa stanchezza, soprattutto nella parte centrale, provocando più di uno sbadiglio. L'unico guizzo è la coda del film, la scena dei cereali al supermercato, vera esemplificazione di come il protagonista non è fatto per vivere in un mondo libero e democratico ma è nato per ricevere ordini, per compiere azioni spericolate in nome di... di non si sa che cosa! Bella messa in scena, pessima metafora.
Ecco perché il problema del film è politico: vuol narrare qualcosa ma sfrutta l'onda emotiva di qualcos'altro per ottenere clamore, proponendo tesi difficilmente difendibili. L'intelligente regia della Bigelow, la sua capacità di messa in scena, la sua bravura nel raccontare un mondo prettamente machista, non sono elementi necessari a salvare il film dalle sue numerose debolezze d'impianto. 

Up


Up di P. Doctor, B. Peterson
(2009) USA

Pensavo che WALL-E fosse la cima delle idee Pixar ed invece Up è un altro passo avanti verso la sperimentazione e l'innovazione, i veri marchi di fabbrica del colosso cinematografico. Sono due film diversi, a ben guardare: WALL-E era forse più rivoluzionario in termini di regia e l'iper-realismo che il suo digitale raggiungeva voleva ottenere il massimo della resa nell'interpretazione di personaggi inesistenti. Up, invece, pur realizzando un film d'animazione dove la regia gioca un ruolo fondamentale (vedi le bellissime scene mute, dove il montaggio, le musiche, la mimica degli "attori", le scelte fotografiche sono cinema allo stato puro), sembra piantare radici in una solidissima sceneggiatura che non si perde in fronzoli e contorni (la necessità di non annoiare il pubblico più giovane sembra essere una limitazione positiva, se questi sono i risultati) ma va dritto al cuore pulsante della narrazione ed al suo protagonista, questo splendido vecchietto vedovo e scontroso, vero anti-personaggio per un film di animazione. Fra l'altro, il tipico bilanciamento di elementi per non scontentare nessuno (né i bambini né il pubblico più adulto che li accompagna, perché sembra che siano ancora pochi i giovani e gli adulti che vedono un film Disney o Pixar senza il preconcetto che si tratti di film per mocciosi) riesce benissimo anche stavolta così come era accaduto con WALL-E
Ecco, allora, che ben si comprende la nomination agli Oscar di Up come miglior film perché di questo si tratta: non può essere considerato un film diverso dagli altri solo perché d'animazione. Up è un film completo, è cinema nel senso più significativo e pieno del termine, emoziona alla grande e costruisce una narrazione mai banale e prolissa ma anzi fatta di gesti, oggetti, azioni che esplicitano le psicologie e i sentimenti dei protagonisti. Un autentico capolavoro del genere che ha molto da insegnare a tutto quel cinema sentimentale e d'intrattenimento contemporaneo che annaspa disperato. Il mio unico rimpianto è non averlo visto in 3D, perché magari anche in questo era riuscito a costruire un discorso innovativo ed importante.