19.12.09

Cosa resterà degli anni zero?

Il gioco della classifica è irresistibile ogni qualvolta si chiude un ciclo. La fine degli anni zero ci porta a fare il punto della situazione e a decidere cosa portarci nel nuovo decennio. Siti specializzati, blog e testate giornalistiche non si sottraggono al gioco e io non sarò da meno (come se questo importasse a qualcuno ma tant'è). Ma prima di buttare giù i miei 20 film più una postilla è bene fare qualche precisazione: è una lista parziale, talvolta emotiva; soprattutto è una lista incompleta! Detto ciò, quando si fanno di queste cose, a pesare sono più le assenze che le presenze. Fa' parte del gioco e siete liberi di insultarmi, criticarmi o meglio ancora dirmi quello che secondo voi manca e perché avrebbe dovuto esserci. Infine, un ringraziamento al mio amico John che mi ha aiutato e sopportato nell'ardua impresa di restringere l'iniziale rosa di 46 titoli per ottenerne 20.

1) INLAND EMPIRE (David Lynch). E' lo schiaffo in faccia a chi si affanna a cercare nel 3D la speranza di risvegliare i sensi del pubblico nelle sale cinematografiche. E' il culmine di una carriera. E' sperimentazione allo stato puro e al tempo stesso cinema nel senso più stretto del termine. E' narrazione emotiva che non può passare inosservata, è il film che non finisce con i titoli di coda ma ti insegue anche dopo esserti alzato dalla poltrona. L'autentico capolavoro degli anni zero che ci spiega (e ci fa "sentire") cosa dovrebbe essere un film.

2) Niente da nascondere (Michael Haneke). A mio parere l'opera più riuscita del regista austriaco, dove la sua ossessione per la macchina da presa e le sue capacità si coniugano al meglio con il cancro sociale che ci potrebbe portare alla deriva. Non distinguere quando stai guardando il film o una delle videocassette minatorie ci riporta al labile confine tra realtà soggettiva e realtà oggettiva: il tuo sguardo è quello del regista o del ricattatore? Fra l'altro, è un film dai molteplici livelli ma rimane sostanzialmente un thriller. Un thriller che non ha nessun elemento classico del genere, quindi un nuovo modo d'intenderlo.

3) Mulholland Dr. (David Lynch). Vale lo stesso discorso per Niente da nascondere: un film di genere che rimescola le regole e crea un'angoscia ad arte senza che se ne comprenda il motivo. Classicheggiante in alcuni punti ed innovativo per altri, è una fusione riuscitissima tra emozione e narrazione che ha spianato la strada ad INLAND EMPIRE. La verità è che non si potrebbe mai smettere di rivederlo.

4) Paranoid Park (Gus Van Sant). Per me rappresenta il compimento della ricerca di Van Sant avviata con Elephant. Se il più recente prevale sul primo è solo per la sua maggiore precisione negli intenti e la migliore resa finale. Paranoid Park è magari meno efficiente di Elephant ma forse meno pretenzioso e per questo più onesto. La scena della doccia è uno dei capolavori degli anni zero.

5) Lost in Translation (Sofia Coppola). Lo piazzo qui per creare un contrasto con le precedenti scelte. Le complesse scelte registiche precedenti si scontrano e deflagrano con questo elogio della semplicità che ha un impatto altrettanto fortissimo: il secondo film della Coppola è minimalismo che si fa' forte di un'idea e la porta avanti affidandosi ad un attore istrione e ad una cornice surreale (tale perché lontana da noi occidentali). Le emozioni che ogni volta questo film mi scatena sono fortissime e la scena finale ha lasciato qualcosa dentro tutti, se è vero che oggi se ne parla ancora. Il cult per eccellenza del decennio.

6) The Village (M. Night Shyamalan). Sono un ammiratore della prima ora di Shyamalan, pur riconoscendone gli alti e bassi. Ma The Village va oltre: per me è il miglior film post-11 settembre, il che è ancora più eccezionale se si pensa alla cornice cronologica del film. Una autentica favola che scava nel profondo dell'animo americano ed occidentale in genere, molto più di certe spocchiose produzioni già cadute nel dimenticatoio. Inoltre, è un'altissima lezione di regia cinematografica.

7) Dogville (Lars von Trier). Subito a seguire The Village perché è l'altro post-11 settembre che ha lasciato davvero un segno in questo decennio. Ma ancora più importante è l'elaboratissima messa in scena con la quale von Trier concretizza definitivamente le sue idee sul cinema ed il parziale fallimento del Dogma 95. Discesa agli inferi e violenza vendicativa senza precedenti, amara e liberatoria al tempo stesso. E' come guardare un mostro che sappiamo tutti di avere dentro. E' l'idea di un cinema che si piega alla storia che vuol narrare.

8) Kill Bill Vol. 1 (Quentin Tarantino). Altra memorabile vendetta al femminile, lo metto in cima alle opere di Tarantino perché forse è l'unica che ha davvero segnato interi anni di produzione cinematografica: nella sua perfezione stilistica e pregiatissima messa in scena, ci ha ricordato che il cinema può anche essere puro intrattenimento, divertimento, senza perdere la sua impronta d'autore. Non prendiamoci troppo sul serio, insomma. C'è abbastanza tempo e spazio per tutto.

9) Il petroliere (Paul Thomas Anderson). Difficilmente un regista è riuscito ad infilare un capolavoro dietro l'altro come Anderson. Il petroliere non sarà forse il mio film del cuore tra quelli che ha fatto eppure è perfezione non solo stilistica ma anche come risultato: per me rappresenta la fusione tra classico e moderno, un autentico punto fermo che chiude un'era e ne apre un'altra, ammesso che qualcuno voglia raccogliere la sfida. Perfetto sotto ogni aspetto, un vero capolavoro.

10) Il caimano (Nanni Moretti). Discusso e criticato, rimane la migliore analisi dell'Italia anni zero. Quell'Italia schiacciata dall'ingombrante presenza di Berlusconi e dai suoi effetti devastanti, riesce a narrare tutto ciò senza essere pedante e strettamente politico ma anzi marginalizzando la figura di Berlusconi concentrandosi invece sugli italiani. E sul cinema. Il bellissimo epilogo riassume il tutto con un impatto emotivo raro per il cinema italiano ed attualissimo ancora oggi. Purtroppo.

11) Se mi lasci ti cancello (Michel Gondry). L'incontro tra due geni del decennio (il regista e lo sceneggiatore Kaufman) ha prodotto una strepitosa lezione di cinema e di vita sull'elaborazione del dolore e del rimpianto. Sfrenata fantasia poetica che si esprime attraverso regia e montaggio, fusione tra artigianato ed effetti speciali, difficilmente lo si può dimenticare dopo averlo visto. Stiamo ancora aspettando qualcuno che sia capace di seguire questa strada.

12) Non è un paese per vecchi (Coen). Puro cinema fatto di immagini, panoramica di personaggi disperati e dispersi, la nostalgia di un ordine delle cose che ci rassicuri, la speranza negata di una giustizia che non arriva mai. Capolavoro che scalza A serious man solo perché quest'ultimo è ancora troppo fresco per essere elaborato, ma meritavano entrambi di esserci.

13) Il Divo (Paolo Sorrentino). La mia pietra miliare per il cinema italiano del decennio. Ancora spero che presto si parlerà di un prima e di un dopo Il Divo. E' quel tipo di cinema che mette in scena il regista prima ancora del film stesso: l'opera è Sorrentino ad ogni inquadratura, ogni scelta di montaggio, ogni ardito movimento di macchina. Senza mai farsi invadente ma semplicemente esprimendo il suo personalissimo punto di vista su un personaggio grottesco.

14) The Prestige (Christopher Nolan). Lo metto prima de Il cavaliere oscuro perché era sicuramente molto più facile aspettarsi da quest'ultimo il risultato che ha ottenuto. The Prestige, invece, non aveva l'obiettivo di imporsi sull'immaginario collettivo e per questo riesce in maniera profonda a condurre una riflessione sul potere ingannevole dell'illusione (anche cinematografica) pur rimanendo fortissimo intrattenimento. Da riscoprire.

15) Il cavaliere oscuro (Christopher Nolan). Nolan è il più grande degli americani capace di intrattenere con grandi budget ed effetti speciali senza mai essere banale e scontato, ma anzi sfruttando al meglio le potenzialità tecnologiche messe a sua disposizione per costruire una precisissima (e discutibile) apologia dell'eroismo, creando anche un "bad guy" da annali del cinema che ha reso immortale Heath Ledger.

16) Match Point (Woody Allen). La migliore espressione artistica di Allen degli ultimi dieci anni, asciutto e preciso nel portare avanti un discorso talvolta metafisico che materializza in immagini il pensiero del regista. Woody Allen abbandona i suoi cari toni da commedia per creare una tragedia lontana dalle esperienze comuni ma che ci tocca tutti da vicino: "il caos regna".

17) Into the wild (Sean Penn). Esempio di cinema viscerale ed emotivo, alla stregua di INLAND EMPIRE sembra (solo all'apparenza) privarsi di una vera e propria storia per puntare all'esperienza sensoriale che abbatte il confine tra spettatore e grande schermo. Un film non perfetto ma che nel suo insieme ottiene un risultato altissimo.

18) Zodiac (David Fincher). Quasi tre ore di thriller dove l'assassino è un fantasma. Non c'è, certe volte si dubita addirittura che esista. Neanche il finale fornisce risposte. Eppure si sta lì folgorati dallo stile del regista che mette su un'opera perfetta fatta di splendida fotografia e caratterizzazione precisissima dei protagonisti, merito di una sceneggiatura col botto. L'immagine del taxi illuminato solo da un lampione rimanda all'esorcista davanti la casa di Regan, consacrandosi per sempre.

19) I figli degli uomini (Alfonso Cuaròn). Perché questo film? Perché rappresenta un importante progresso nelle tecniche di messa in scena. E' un costante superamento dei limiti umani che si impongono nella realizzazione dei film, continui ed elaboratissimi (e truccatissimi) piani sequenza che gettano una ventata di innovazione non da poco. E' spettacolo allo stato puro.

20) I segreti di Brokeback Mountain (Ang Lee). Per chiudere ho scelto un film che quasi si distacca dalla produzione degli anni zero ma non per questo si rende banale o all'antica. Anzi, la costruzione delle inquadrature secondo Ang Lee richiama l'urgenza di non dimenticare che il cinema è anche e soprattutto immagini e che queste devono essere capaci di raccontare anche lo stato interiore degli individui. Il film, inoltre, ha rotto un taboo raccontando in maniera genuina e realistica l'amore omosessuale, senza gli insopportabili cliché e stereotipi che siamo costretti troppo spesso a subire.

Per concludere,una doverosa menzione al mondo dei serial che negli anni zero ha conosciuto un vero e proprio exploit che ha consacrato definitivamente quel processo di rivalutazione del mezzo televisivo avviatosi con Twin Peaks. Quello dell'audiovisivo seriale è lo spazio dove si ha il coraggio di osare, spesso molto più di quanto facciano al cinema. Perciò voglio citare quelli che a mio parere sono i due migliori prodotti del decennio.
Lost. Ha letteralmente rivoluzionato il modo di pensare il prodotto televisivo, ha scardinato le regole cronologiche e ha ordito una delle migliori trame di sempre nella quale tutti gli elementi emozionali sono sapientemente dosati. Ma soprattutto ha dimostrato che, se ben condotto, il pubblico si impegna con piacere a diventare parte attiva dello svolgimento. Un delirio osannato in tutto il mondo dopo il quale nulla è stato come prima.
Dexter. Il capolavoro seriale per eccellenza, una sfida costante nel richiedere da parte del pubblico empatia per un protagonista che più atipico non si poteva: un serial killer sociopatico. La capacità degli autori di spostare sempre più in là il confine dell'accettabile ha mantenuto intatto il notevole crescendo che ha caratterizzato le prime 4 stagioni, non facendosi mancare ardite riflessioni grazie alle quali milioni di persone si riuniscono davanti alla tv per dare il benvenuto nel loro salotto ad un serial killer.

"Hello, Dexter Morgan."

QUESTO POST NON CONTIENE SPOILER SULLA QUARTA STAGIONE.

Come avrò occasione di ribadire più avanti, semmai di capolavoro si potrebbe parlare riguardo i prodotti per la televisione, Dexter starebbe sicuramente in cima, forse secondo solo a Lost per innovazione e coraggio di osare. La costante crescita di questo serial ha toccato il suo apice nella appena conclusasi quarta stagione dove la qualità di scrittura e il superamento dei vecchi canoni televisivi hanno raggiunto picchi difficilmente rintracciabili negli ultimi anni di exploit seriale.
Il perno centrale di Dexter è pur sempre lo stesso: violentare la
psiche dello spettatore portandolo a parteggiare ed ad immedesimarsi con un serial killer sociopatico. Se questo spunto si mostrava già fondamentale nella prima stagione, fu nella seconda che avvenne il colpaccio, ovvero quando la trama ed i suoi risvolti furono a tal punto genialmente costruiti da portare lo spettatore addirittura a tifare per quell'assassino di Dexter Morgan ogni qualvolta stava per essere acciuffato. Il terzo ciclo andò addirittura oltre e con il personaggio di Miguel Prado mise in scena il paradosso stesso del serial: l'adorazione e l'immedesimazione con Dexter portano ad una pericolosissima deriva come quella dell'emulazione. Ed eccoci arrivati alla quarta stagione. Fermo restando il centralissimo e meta-televisivo argomento di come la serialità ben scritta possa ottenere dallo spettatore qualsiasi reazione a suo favore, l'ultima stagione è forse la più cupa e la più violenta e come tale mette in mostra tutto il lato più oscuro e sadico del buon Dexter Morgan, che si ritrova a guardarsi nello specchio quando compare sulla scena la sua nemesi, il Trinity Killer (uno stupefacente John Lithgow che meriterebbe qualsiasi tipo di premio per questa interpretazione). I traguardi sociali raggiunti dal protagonista (l'affermazione professionale, la famiglia, la paternità, il buon vicinato) rappresentano un fastidiosissimo ostacolo per quello che rimane un istinto primordiale inarrestabile: Dexter deve uccidere, ne ha bisogno per essere in pace con sé stesso. L'intera stagione si divide tra il suo bisogno malato ed i suoi doveri familiari: Dexter vorrà prima convincersi di poter gestire entrambe le cose e poi comincerà ad accarezzare l'idea che forse, per il bene della famiglia, prima o poi potrebbe anche sforzarsi di cambiare e lasciarsi alle spalle il suo Passeggero Oscuro che lo costringe ad uccidere. Tutto questo, ovviamente, mentre il Trinity Killer incrocerà la sua strada scatenando una serie di azioni che porteranno ad un finale di stagione micidiale, emotivamente potentissimo e straziante come non se ne vedevano da anni. La guerra che Dexter e il Trinity Killer ingaggeranno poco a poco non è solo letteratura ben scritta ma potenzialmente rientra nello schema narrativo seriale di cui gli autori si servono per ottenere il consenso del pubblico; dopo quel finale di stagione (e gli ascolti record premiano) il pubblico medio non avrà più dubbi, non metterà più in discussione Dexter, non vacillerà più davanti alla sua sete sanguinaria. Forse anche per questo l'attrice Carpenter ha ben dichiarato: "alla fine di ogni stagione ci siamo chiesti cosa potevamo fare l'anno prossimo. Adesso la domanda è: cosa NON possiamo fare?"
Se a tutto questo aggiungete un cast in stato di grazia ed una realizzazione tecnica impeccabile e sempre di altissimi livello, allora capirete tutto il mio entusiasmo.

15.12.09

The Wrestler

The Wrestler di Darren Aronosfky
(2008) USA

Quando sentivo parlare della grande interpretazione di Mickey Rourke in questo film ero sempre un po' scettico: pensavo che il vissuto del protagonista fosse troppo simile a quello dell'attore e che quindi quest'ultimo non avesse fatto chissà che fatica per l'interpretazione. Adesso mi rimangio tutto: The Wrestler è un film che si poggia tutto sulle fracassatissime spalle di Rourke e la sua interpretazione non è facile né banale ma anzi è il film stesso, una di quelle rarissime pellicole che fa del suo protagonista il perno dell'intera regia. Certo, fa un po' male vedere che Darren Aronofsky ha abbandonato quella coraggiosissima ossessione cinematografica per temi quali l'immortalità, la vita dopo lo morte e il senso ultimo delle cose ma non l'ha fatto certo per commercializzarsi ma anzi per realizzare un film anche difficile da vedere, tutto girato con camera a mano e con pochissimi ammiccamenti nei confronti del pubblico. Eppure le sue scelte restituiscono integralmente lo stato d'animo della storia: quel senso di fallimento, di sconfitta che pervade ogni inquadratura non è facile da ottenere senza i soliti trucchetti di montaggio e regia eppure l'autore, lavorando per sottrazione e non concedendosi virtuosismi, centra il bersaglio e non si svende. The Wrestler è un film un po' fuori dal tempo, come non se ne fanno più, che non vuole proporre chissà che morale ma non garantisce nemmeno piena assoluzione a chi nella pellicola cerca una sorta di rendezione per sé o per il protagonista. E' disfacimento allo stato puro e per questo gli si perdona anche sgradevoli scivoloni (il discorso di Ram sul ring che fa molto Rocky, l'eccessivo reazione della figlia ad un mancato appuntamento). E se è vero che Aronofsky si dimostra un grande regista per gli attori (ne escono tutti molto bene da questa prova), è altrettanto vero che Mickey Rourke ha fatto un lavoro straordinario su sé stesso e la sua espressione nell'ultimissima inquadratura lo ripaga di un'intera carriera un po' malandata.

14.12.09

A serious man

A serious man di Ethan & Joel Coen

(2009) USA

L'ultimo film dei Coen è uno dei migliori con il quale chiudere l'anno. Lo odierete ferocemente e magari alla fine della visione vi verrà voglia di tirare un pugno al muro come al sottoscritto. Ma il giorno dopo vi accorgerete di star ancora riflettendo su quello che avete visto e quindi il film vi seguirà fuori dalla sala.
La gelida perfezione tecnica di Non è un paese per vecchi non permetteva il massimo dell'identificazione con i protagonisti mentre qui, pur essendo il protagonista un uomo troppo lontano dall'italiano medio, c'è un maggiore raccoglimento intorno ad un uomo che sta perdendo tutto. Detta così sembra una tragedia, in realtà come al loro solito i Coen fanno molto ridere lo spettatore, soprattutto nei momenti peggiori facendo sfoggio di un cinismo che è sempre sano e mai compiaciuto e ricorrendo a notevoli intuizioni di regia che dimostrano come ai due piaccia soprattutto ricercare nuovi espressioni linguistiche: a tal proposito, è interessantissima la scena dell'incidente stradale, con un montaggio ingannevole che ti fa però intuire perfettamente ciò che sta accadendo. L'apice è, a mio parere, il finale. Questo film attribuisce un nuovo significato al concetto di "finale aperto" anche se sarebbe più onesto dire che questo film non finisce, letteralmente. Non solo nessuna delle narrazioni della storia viene conclusa ma soprattutto i titoli di coda che appaiono all'improvviso ti danno l'impressione che ti stai perdendo proprio il momento migliore. Inoltre, i Coen giocano ancora una volta con il concetto di Dio, di religione e con il fatalismo, fra l'altro raggiungendo tesi opposte a quelle di Non è un paese per vecchi: in quest'ultimo il destino non riusciva a rimettere a posto le cose; A serious man si conclude con una telefonata dall'impatto emotivo fortissimo e che arriva soprattutto in un precisissimo momento nella vita del protagonista proprio come quella macchina investiva il killer Bardem. I Coen, ancora una volta, si appellano ad un destino che però si dimostra ancora più crudele della realtà vera, ancora più caotico degli innumerevoli casi che governano le nostre vite.
A serious man è l'autentico capolavoro di fine 2009, uno di quei film che ti segue per molti giorni dopo averlo visto e che vorresti rivedere pur avendo odiato il posto in cui ti ha condotto.

13.12.09

Il curioso caso di Benjamin Button

(2008) USA

Arrivo in ritardo su uno dei film evento della scorsa stagione ma almeno il mio giudizio non suonerà come furbetto per spiccare nel coro unanime di complimenti rivolti alla pellicola. Il curioso caso di Benjamin Button è insopportabile e davvero non mi spiego come sia stato possibile (con quel regista, con quel cast, con quel budget, con quell'hype) tirare fuori un film così scemo, soprattutto partendo da uno spunto così originale e promettente.
Sorvolando (si fa per dire) sul fatto che a stento si riesce a riconoscere David Fincher dietro la macchina da presa, il più grande difetto è sicuramente la sceneggiatura. Non solo la storia non sembra mai decollare ma si fa fatica, arrivati alla fine, a capire se sia davvero successo qualcosa in due ore e mezza di film. L'unico merito di Roth è l'intuizione di inserire l'uragano Katrina come sottofondo alla storia. Probabilmente la colonna più fragile è la costruzione dei personaggi: piatti, senza spessore, abbozzati manco fossero cartoni animati e alcuni costruiti a tavolino (inutilmente, visto il fallimento) per far simpatia al pubblico. La punta di diamante è Cate Blanchett, co-protagonista e scheggia impazzita: perché fa quello che fa? Perché da dolce ragazzina è diventata sessualmente aggressiva? Che cavolo di ambienti frequenta? Fa la ballerina negli anni '50, mica la groupie dei Rolling Stones... E perché Benjamin Button non gli si concede al loro primo appuntamento? Alzi la mano chi l'ha capito!
Il difetto principe (che è poi il risultato della somma dei tanti difetti della pellicola) è la noia mortale. E' un film pesantissimo da digerire che ti fa sentire minuto per minuto tutta la sua durata. E la gelida e distaccata regia non aiuta ad aumentare il coinvolgimento.
Benjamin Button lo boccio senza appello. Forse è colpa della storia: infondo, un soggetto molto simile ha causato una batosta anche a Coppola, vedi Un'altra giovinezza. In compenso, c'è il graditissimo ritorno della Ormond in una grande produzione hollywoodiana.

3.12.09

Gli abbracci spezzati

Los abrazos rotos di Pedro Almodòvar
(2009) Spa

Al regista piace giocare con il mondo del cinema. La sua passione viscerale per la settima arte si esprime proprio come accade con Tarantino: quest'ultimo recupera i b-movies provando a dargli una nuova veste artistica, Almodòvar preferisce attingere dal cinema di prima classe filtrandolo attraverso il suo personalissimo gusto melodrammatico europeo. Il risultato è più che mai riuscito con Gli abbracci spezzati, film ambientato in buona parte su un set cinematografico e che poggia la sua storia su ciò che viene inquadrato. La vera protagonista, infatti, è la macchina da presa o sarebbe più giusto dire l'occhio di chi inquadra: da una parte c'è l'attrice Cruz che recita un ruolo e dall'altra la donna Cruz che vive una passione adultera con il suo regista. In entrambi casi è inquadrata da due obiettivi: la macchina da presa del regista e l'occhio spione di una videocamera su commissione del gelosissimo marito di lei che deve documentare tutto ciò che la Cruz dice e fa tra una pausa e l'altra. La resa finale è un raffinato gioco di specchi che ha il suo culmine nella scena più bella del film, quando Penelope confessa al marito il tradimento, una scena così profonda e magnifica che descriverla non le renderebbe giustizia. Da quel momento in poi il film assume un'altra direzione e si concentra sull'amore disperato di due individui che si isolano dal mondo per trovare pace e felicità, salvo poi essere riportati alla cruda realtà nel peggiore dei modi.
Gli abbracci spezzati è fondamentalmente un vivace omaggio al cinema stesso e alle due figure che nel mondo di Almodovar stanno al centro di tutto: il regista e la sua prima attrice. L'epilogo del film è al tempo stesso redenzione e summa dello stile almodovoriano: all'autore spagnolo, capace di rendere credibile gli assurdi risvolti di trama delle sue opere grazie alla emozionante messa in scena, importa solo arrivare alla fine, importa solo costruire le inquadrature e la storia diventa quasi secondaria seppur coinvolgente; i film vanno finiti, "anche alla cieca" sentenzia l'ultima battuta. Almodòvar omaggia e perdona se sé stesso e noi con lui.

2.12.09

Angeli e demoni

Angels & Demons di Ron Howard

(2009) USA

Il problema è serio e non riguarda le scelte di regia di Ron Howard, ampiamente discutibili. Se Il codice Da Vinci era facilmente attaccabile proprio perché "fatto male" (e sì, ogni tanto si deve dire), questo Angeli e demoni presenta una "confezione" molto più dignitosa e riuscita. Sarà che l'ambientazione romana è affascinante, sarà che il lavoro sugli effetti speciali che ha permesso di ricreare l'intera Piazza San Pietro è strabiliante, sarà che il ritualismo che ruota intorno alla morte di un papa e all'elezione di quello successivo è degno di trame da complotti politici, l'ultimo film tratto da un best-seller di Dan Brown può facilmente intrattenere senza prendersi troppo sul serio come aveva invece fatto la precedente trasposizione. Il problema serio riguarda tutt'altro e cioè la profonda e conscia ignoranza sulla quale la storia si fonda e che rende difficilmente digeribili certi dialoghi e certe dinamiche. Intanto perché il tacito patto che si instaura tra film e spettatore (la sospensione dell'incredulità) viene a tal punto forzato da infrangersi più volte ma soprattutto perché su certe "stronzate" non si può proprio indulgere: il culmine lo si ha alla fine, quando a pochi metri dal papa un importante cardinale esclama "le religioni sono imperfette perché gli uomini sono imperfetti", al che lo spettatore dotato di un minimo di coscienza dovrebbe alzarsi e urlare contro lo schermo "Ah bello, lo stai dicendo a pochi passi da quell'uomo che proprio per dogma è infallibile per definizione". Ovvio che io parlo per astio e per partito preso ma questo c'entra davvero poco. Da un film di così ampia portata internazionale ci si aspetta molto di più, specie pensando all'effetto che questo genere di cretinate può avere sul pubblico (già me lo vedo lo spettatore medio confortato dal fatto che anche le più alte cariche cristiane possono sbagliare).
Ovviamente c'è molto altro di opinabile (gli attori abbandonati a sé stessi e senza un minimo di direzione, per dirne una) mentre forse l'aspetto più solido è un montaggio che non perde mai di ritmo e che tiene miracolosamente in piedi una storia fragile. Ma l'aspetto sulle fandonie religiose è quello che avverto come il più grave, la classica leggerezza all'americana.